Rientrare in casa dopo quasi 20 giorni, riappropriarmi dei miei spazi e delle mie abitudini significa anche fare i conti con il “non fatto” da parte dei quattro mostrilli che animano questa casa.
Al di là dello sporco ormai consolidato, delle scarpe da millepiedi sparse ovunque – ne ho contate 11 paia, occhieggiavano ovunque – quello che veramente mi lascia sconfortata è l’armadio del secondo maschio di casa.
Sono questi i momenti in cui la consapevolezza del limite si trasforma in sconforto. Da un armadio, direte voi? E che sarà mai un armadio un po’ in disordine?
Molti me lo dicono: i ragazzi sono tutti così; cosa vuoi che sia; eh, anche io combatto con i miei tutto il giorno.
Il senso di frustrazione, in questi casi, aumenta. Perché è la prospettiva quella che cambia il punto di vista. Come in piazza Santa Croce con le finestre con spazi progressivi fra loro, che solo da un punto della piazza sembrano tutte alla stessa distanza.
I nostri figli, prima o poi, vivranno da soli. E tutti sappiamo che, prima o poi, come tutti abbiamo fatto, prenderanno progressiva consapevolezza che i bagni vanno puliti, che i vestiti non si lavano da soli, tantomeno si stendono o (eresia!) si stirano in autonomia, che il frigo non si riempie per partenogenesi, che la spazzatura ad un certo punto puzza e straripa.
Con un figlio con disabilità cognitiva, questa certezza non c’è.
E allora l’armadio con i vestiti accartocciati, la sedia piena di pantaloni provati e lasciati lì, diventano un cannocchiale sulla vita che sarà. Chi ci sarà accanto a lui a ripiegare le magliette, i pantaloni, i maglioni? A mettere a posto le mutande e i calzini? Chi metterà a lavare, dopo un’annusatina di controllo, le robe sparse?
Mettersi nella prospettiva del “dopo di noi”, consapevoli delle capacità. Ecco, tutte le volte che passo minimo un’ora a ridare dei confini al disordine cosmico che regna in quell’armadio, questi sono i miei pensieri. Il cuore stretto stretto, cercando di superare il senso di panico per darmi obiettivi piccoli, quotidiani, superabili. La razionalità a mettere a bada l’emotività.
E concludere che per fortuna, quando sarò morta, non sarà più un problema mio. Ma sapendo che il mio ultimo pensiero sarà: che cosa succederà adesso?