Quello che le amiche (non) dicono

Sono sempre stata una di quelle persone un po’ petulanti che condividono le informazioni che pensano “preziose” con tutti coloro ai quali pensano possano interessare (se non ho sbagliato neanche un verbo in questa frase merito minimo il Nobel per la grammatica italiana).

Quindi l’altro giorno ho condiviso la gioia di aver trovato un negozio che vende pantaloni da “old lady” con una delle mie amiche storiche, felice di poter passare a qualcuno l’informazione di dove trovare abbigliamento che non faccia sentire perennemente inadeguate e grasse.

Ho scoperto con un minimo di disappunto che lo conosceva (ed era affezionata acquirente) già da un po’.

Il disappunto deriva dal fatto che “dato che hai una informazione così importante cosa ti frena dal condividerla con me che sono tua amica, della tua stessa età, con gli stessi problemi di ciccia, pancia, fianchi che debordano dai confini usuali per cercare di espandersi verso la Kamchatka pensando di conquistare posizioni e vincere il game?” Perché mi fai sudare sette camicie (ma sopratutto girare -anta negozi) per ottenere la stessa informazione che potevi girarmi tu?

L’informazione in questo caso è ininfluente, ma in altri momenti e circostanze può essere cruciale.

Questo episodio mi ha riportato alla mente un momento di tanti anni fa, quando Davide era piccolino e le informazioni sulla sindrome erano come una fontana nel deserto, un momento che bramavamo e invocavamo per placare il senso di isolamento del deserto che ci circondava.

Ho ancora ben chiaro dove eravamo, chi eravamo e che posizione avevo. Un bel parco, dove avevamo portato i nostri ragazzi per un momento di convivialità. Una tavola imbandita, i figli da controllare, un crocchietto di mamme da un lato che chiacchieravano del più e del meno. Io che, come da incipit, condivido un’informazione che a me sembra nuova, luccicante, piena di implicazioni per la vita futura di Davide ma anche dei bambini che sarebbero venuti dopo di lui. Una delle mamme, di fronte alla mia esternazione, ribatte candidamente che lei quella cosa lì la sa e fa da anni, per sua figlia.

Io ricordo ancora perfettamente come in quel momento, per un attimo, il mondo si sia fermato e io abbia elaborato, in un nanosecondo, che c’era qualcuno che aveva una informazione per me cruciale; che questo qualcuno aveva la funzione di referente dell’Associazione; che questo qualcuno non aveva sentito nessun bisogno di condividere con me questa informazione, ripeto cruciale, per evitare di farmi percorrere la stessa strada che lei aveva percorso prima di me, impiegando un certo tempo. Quindi la sua esperienza non era stata condivisa, non era servita per chi era venuto dopo, non era stata, con i termini che io uso normalmente, “capitalizzata”.

Quindi ogni genitore, nonostante qualcun altro prima di lui avesse fatto un percorso, ripartiva da zero come se tutto quanto dovesse essere espiato in un girone infernale dantesco, preso in un loop dal quale sembrava impossibile uscire.

Ci sono momenti che ti cambiano la vita. Per me questo istante è stato dirimente.

Quello che ho pensato è stato: non voglio che chi viene dopo di me ricominci da capo. Vorrei, non so se riuscirò, ma vorrei davvero che quello che riuscirò ad imparare sulla Sindrome e sui percorsi che Davide dovrà fare possa diventare patrimonio comune, una base di partenza dalla quale chi viene dopo potrà partire per aggiungere tasselli per quelli che verranno ancora dopo.

Da lì è nata l’associazione regionale e l’impegno in associazione in generale: una filosofia di sottofondo che ha accompagnato le mie scelte da quel momento in poi.

Ecco, credo che costruire per lasciare a chi viene dopo sia quello che dovrebbe improntare le nostre scelte e le nostre decisioni. O forse no, chi sa.