Deadline

Mi è capitata sotto gli occhi una discussione scaturita dalla notizia che la prima copertina del New Yorker del 2024 sarà illustrata da Bianca Bagnarelli, con il titolo “Deadline” e contenuti relativi ai tempi lavoro.

Giampaolo Coletti ha commentato “riflessione amara sull’ibridazione degli spazi tra lavoro e vita privata, una volta silos dai confini invalicabili e oggi interconnessi tra loro a causa di smartphone, social, chat. E domani?”.

Sotto, una discussione sul “valore” del lavoro, sulla necessità di spazi privati, sull’inconciliabilità della vita a cui siamo abituati con un recupero della dimensione familiare.

I miei 5 cents a questo proposito.

All’inizio del secolo scorso, si lavorava per vivere. Niente lavoro, niente cibo. E in moltissimi casi, tanto lavoro e poco cibo. Lavoro in miniera, nei campi, nelle prime fabbriche, turni sfiancanti, si entrava all’alba e si usciva con il buio, giusto il tempo di tornare a casa e ricominciava tutto. Sabati, domeniche, non avevano un grande significato, se non per la Messa, se si riusciva a essere così fortunati da non dover lavorare anche quel giorno (vedi contadini).

Certo, c’è chi era più “fortunato”: o perché faceva qualche lavoro pubblico (amministrativi, insegnanti…) o perché era benestante di famiglia e poteva vivere di rendita o con lavori di prestigio (notai, avvocati, bancari…).

Dopoguerra, boom economico, sindacato, il lavoro acquisisce, per chi può, una dimensione diversa: parte della giornata, parte della vita. Per qualcuno, diventa vivere per lavorare: la smania del successo, dell’accumulo di denaro, del potere, della ricchezza rendono il lavoro uno strumento per ottenere sempre di più e per dotarsi di tutti gli status symbol necessari per esternare al mondo il proprio “io ce l’ho fatta”.

I soldi, prima utilizzati per il quotidiano, centellinati e spesi con oculatezza, diventano non il mezzo per sopravvivere, ma il fine stesso. La società consumistica spinge verso questo, in maniera inesorabile: usa e getta, obsolescenza programmata, marketing mirato.

Criceti nella ruota. Spinti a correre sempre di più per rimanere nello stesso posto.

La tecnologia ci ha messo del suo. Se infatti prima l’invasività del tempo lavoro era limitata al tempo ufficio (per quanto prolungato) con smartphone, interconnettività dei computer, internet il tempo lavoro ha travalicato le mura fisiche di un luogo specifico per espandersi come uno tsunami, pervadendo qualsiasi spazio personale e privato. Non abbiamo più un momento di disconnessione.

E non è solo questione di deadline. Dal mio punto di vista, perdendo il senso del tempo e dello spazio abbiamo perso la capacità di programmazione. Obiettivi irrealistici, a volte anacronistici, mancanza di senso della realtà, incapacità di coordinamento e armonizzazione, spinta verso un senso personale di affermazione e di volontà di supremazia. Corriamo verso un obiettivo senza sapere a cosa servirà nel concreto, se cambierà davvero in meglio l’organizzazione, la gestione, il senso complessivo delle cose, se migliorerà qualcosa per qualcuno. Siamo talmente presi dal quotidiano da non aver tempo di alzare lo sguardo verso l’orizzonte e riorganizzare quello che facciamo, per adattarlo a una strategia più ampia.

Non ci diamo più il tempo di riflessione. Un fermo immagine, un tempo in cui i pensieri fluiscono liberi da costrizioni e ci aiutano a ridimensionare il fare.

A lato di questo, ma permeante e indissolubilmente connesso, il quesito: a quanto sono disposto a rinunciare per rallentare e far rallentare il mondo (ammesso che sia possibile)? Sono disponibile ad andare a cena fuori ad un orario che consenta la chiusura dei ristoranti almeno a mezzanotte (e non alle 2 o alle 3)? Sono disponibile a non fare la spesa la domenica, o durante l’intervallo pranzo, o alle 22 o addirittura durante tutta la notte? Siamo disponibili a sposare la strategia “slow”? E se sì, riusciremo a farlo tutti insieme, in sincronia?

Se continuiamo a correre sulla ruota, se non ci concediamo il tempo per stimolare un pensiero e una discussione comune su questi argomenti, ho l’impressione che il ridimensionamento del tempo lavoro sarà appannaggio solo di chi potrà permettersi di vivere di rendita, ma con rendite talmente alte da potersi permettere di pagare qualcuno per gestirle. E questa caratteristica dovrà accompagnarsi all’abbandono della frenesia del controllo e del narcisismo che porta a credere che le cose come le facciamo noi non le fa nessuno. Perché l’altro aspetto caratterizzante questa nostra società è la convinzione di essere indispensabili – o forse dovrei dire meglio la necessità di sentirsi indispensabili per dare un senso alla propria esistenza.