Natura e fine vita

La natura distribuisce la vita e la morte con una noncuranza assoluta, dando o non dando le condizioni di esistere Per essa non è di alcun interesse la sorte degli individui, ma unicamente il ricambio generazionale, tenendo in vita i più idonei e lasciando perire i meno idonei. La cultura, l’educazione, la scienza, la tecnica e le pratiche di cura cercano di porre rimedio a questa indifferenza della natura, fino a quel limite (marginale) con cui la cultura riesce a spingersi nel suo tentativo di contrastare la natura. Ma oltre quel limite la sorte è segnata perchè l’uomo è mortale. E non si muore perchè si ammala ma, (Michel Foucault) si ammala perchè fondamentalmente deve morire.” – Umberto Galimberti, D La Repubblica, 5 agosto 2017.

Queste parole di Umberto Galimberti mi riecheggiano dentro in un momento in cui la mia frequentazione di luoghi di cura e di “riposo” per la terza età è giunta al suo culmine (in qualità di visitatore perlomeno).

La vista di umanità tenuta in vita artificialmente, per la quale sono state create una serie di infrastrutture sempre insufficienti rispetto alla domanda, mi fa vacillare certezze e riflettere sul concetto di “difesa della vita”.

Cosa vuol dire difendere la vita rispetto a persone di oltre 80 anni, a volte oltre 90, senza più coscienza di sé, costretti in sedie a rotelle per tutto il giorno, un giorno dopo l’altro, subordinati ad assistenti che più o meno pietosamente o professionalmente si occupano delle loro defecazioni, di imboccarli, di fargli il bagno e cospargerli di crema, di intrattenerli in animazioni mentre il loro sguardo catatonico non denuncia nessun barlume di interesse, conoscenza, consapevolezza.

Cosa vuol dire difendere la vita di fronte alle sofferenze di un bambino, senza alcuna speranza di sopravvivenza di lungo periodo, che deve essere intubato per respirare e mangiare, con encefalogramma piatto e danni neurologici irreversibili?

Fino a che punto è il nostro (nostro = di noi che siamo figli, genitori, fratelli e sorelle…) egoismo che vuol tenere in vita ad ogni costo, noi che non siamo più in grado di affrontare la morte come parte integrante della vita, che cerchiamo in tutti i modi di dimenticarla e passare oltre. Noi che aneliamo la perfezione, che non tolleriamo i limiti che ci sono imposti dalla Natura e dalla nostra natura di esseri finiti e imperfetti. Il nostro egoismo che si spinge al punto di negare la morte per non volerla vederla in noi stessi, anteponendo i nostri bisogni a quelli della persona che abbiamo davanti.

Dove è finito il diritto ad una morte dignitosa? Dove sono finite le morti tranquille, nel proprio letto, circondati dai propri cari, al termine di un’agonia breve e sostenibile? Fin dove arriva la cura e quando inizia l’accanimento terapeutico?
Che poi, detto così, “accanimento”, fa pensare a dottori con la bava alla bocca che cercano in maniera sadica di tenere i propri pazienti aggrappati alla vita…. no no no, io lo chiamerei “abuso terapeutico quando non ci sono più speranze di una vita degna di questo nome”. Ma chi decide quale è il limite? Quando è il momento di dire basta? Questo è l’interrogativo reale, quello che frena qualsiasi iniziativa. Ben vengano quindi le discussioni sul testamento biologico, mai abbastanza approfondite.

Ho partecipato a diversi dibattiti incentrati sulle possibilità che la scienza oggi ci dà di accedere ad una serie di opportunità e sul fatto che queste “occasioni” siano o meno “etiche”. E’ difficile tracciare confini e mettere limiti, ma davvero vogliamo vivere in un mondo dove tutto è consentito solo perchè le conoscenze sono state approfondite al punto tale da renderlo possibile? Non ho ancora risposte chiare in me su queste tematiche. Ma tutto questo mi fa molta paura: giochiamo con cose molto più grandi di noi, senza avere idea di dove queste nuove vie ci porteranno.