Pensavo in questi giorni a come l’errore faccia parte della nostra vita.
Siamo esseri imperfetti, spesso distratti, poco attenti ai particolari. Quindi, come si diceva in tempi molto antecedenti a quelli che viviamo oggi, Errare Humanum est. E poi aggiungevano la parte che spesso dimentichiamo: perseverare diabolicum.
Quindi il problema non è sbagliare o fare qualcosa di non perfetto.
La questione è su come noi reagiamo all’errore.
Nel corso della mia ormai lunga vita, ho visto (e io stessa praticato) diversi atteggiamenti di fronte all’errore.
La negazione: non sono stato io. Tipico dei bambini, ma anche di qualcuno un po’ più grandicello che stenta ad assumersi responsabilità.
La negazione con spostamento della responsabilità: non era un mio compito, quindi il vero responsabile è qualcun altro. Io ero lì per caso.
Il riconoscimento con colpevolizzazione, tanto da impedire qualsiasi ulteriore passo: sono stato io, sono un incapace, non sono in grado di fare niente di buono, sto fermo così non sbaglio.
Il riconoscimento con risentimento. Sono stato io, ma tu che mi hai fatto vedere e notare l’errore rimarrai sul mio libro nero per un po’, e se potrò farti qualcosa in ritorsione lo farò. Anzi, cercherò di trovare qualche tuo errore per fartelo notare e metterti nelle stesse difficoltà in cui mi son trovato io.
E poi c’è l’errore-opportunità. L’atteggiamento che ti induce non tanto a soffermarsi sull’errore o sulla colpa, ma sul modo in cui ci si attiva perché questo non succeda più o per farlo succedere con minor frequenza possibile. Quindi riconosco il mio errore, sapendo che è nella natura umana, ma non mi identifico con lui: ho un libero arbitrio e posso andare oltre. Io non sono il mio errore, compio errori come tutti: se voglio migliorare devo interrogarmi su what’s next, cosa faccio dopo.