150 chilometri, fra superstrada e la splendida Cassia immersa nella Val d’Orcia, mi separano dal paese che mi ha vista crescere, ha accolto le mie ansie, ha lenito la stanchezza nei momenti più difficili.
Un paese che ho visto con occhi sempre diversi. Nell’infanzia, dove tutto sembrava senza confini. In adolescenza, con i gruppi senza un perché e con tante inquietudini, che spesso affogavano in aiuti sintetici. All’età adulta, dove trame e relazioni pubbliche e meno pubbliche si intersecavano sotto la quieta tranquillità dell’apparenza. Per passare alla fase bambini piccoli, con il rassicurante tran tran di tappe obbligate fra altalene, piscina e pattinaggio.
Siamo nella fase ancora successiva, dove altre generazioni hanno trovato spazio, mentre le più vicine all’inizio del secolo scorso piano piano si ritirano e spariscono. Come un quadro dove progressivamente vengono cancellati volti, identità, storie vissute. Che rimangono tali solo nel ricordo di chi rimane, in attesa del proprio turno.
Con gli occhi smaliziati o forse rassegnati di questa fase, mi guardo intorno e osservo. Osservo le persone che so per certo vedrò solo per una manciata di altri anni, probabilmente meno delle due mani insieme. Sento nostalgia a volte acuta per chi già ha lasciato un posto vuoto nella panchina.
Nelle mie riflessioni la nota costante, che non c’era mai stata in tutti questi anni di frequentazione, è una sola: l’abbaiare continuo di una miriade di cani al guinzaglio o “liberi” in una terrazza. Cani di tutte le razze e dimensioni, che inducono i proprietari, a seconda della propria indole, a passeggiate a ritmo blando o strattonano in continuazione per scovare chissà quale tesoro nascosto o marcare il territorio.
Cani costretti ad addomesticarsi in atteggiamenti che non sarebbero stati loro, ma lo sono diventati dopo sapienti e mirati incroci e passaggi successivi. A volte la natura, in qualche esemplare più trascurato, riprende il sopravvento e allora son problemi seri. In altri momenti il tran tran quotidiano diventa difficile da gestire e allora l’abbandono sembra la soluzione migliore.
In ogni caso, sembra che avere un cane sia diventato quasi un obbligo sociale. I proprietari sono tutti fermamente convinti che l’affetto, la compagnia e lo stimolo che viene da queste compagnie canine sia enorme. Hanno ragione.
Un tempo la compagnia, la socializzazione, il supporto reciproco lo si faceva fra umani. Con tutte le difficoltà date da frequentazioni più assidue, da caratteri diversi, da necessità di adattamenti reciproci per andare d’accordo. Adesso abbiamo semplificato, riversando tutto su un animale da compagnia, che ci dà affetto incondizionato, senza pretese, senza necessità di complicati giochi di prestigio per mantenere equilibri di rapporto.
Da un certo punto di vista, il rito quotidiano della passeggiata ci ha restituito anche parte di quella socialità che abbiamo persa. Mentre incrociamo altri padroni che compiono lo stesso nostro percorso, qualche battuta si scambia, spesso incentrata sulle abitudini di quel compagno canino che ci sta portando in giro.
D’altro canto, altrettanta ce ne toglie in alcuni momenti, quando siamo legati ai tempi e alle necessità di quel batuffolo di pelo (o anche un po’ meno batuffolo) che riempie la nostra casa.
In paese siamo passati dalle marmitte degli enduro che percorrevano molesti le strade, ai ronzii degli apetti, a un abbaiare quasi continuo, a tutte le ore del giorno e della notte. E’ un bellissimo specchio delle mode, perché qui si diffondono a velocità quintuplicata in una popolazione circoscritta. Quello che in città si diluisce, qui si concentra e rende evidente il fenomeno.
Anche le badanti sono un’altra caratteristica costante. Fenomeno legato anche questo alla disgregazione sociale che stiamo sperimentando. Ma di questo parleremo un’altra volta.
Per intanto, mi devo rassegnare a non poter più godere di profumo di tigli, silenzio e quiete, mentre il filo dei pensieri si aggroviglia nel rumore di un’ennesima litigata canina.